Ottimo!

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  1. •Queen.Of.Rock«
     
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    E' diviso in parti. Buona lettura! :D

    Titolo: Ottimo!
    Autore:•Queen.Of.Rock«

    Premessa Personale.
    Allora è la mia primissima storia "seria" e non l'ho nemmeno finita. Non so come dividerla in capitoli infatti non vi dirò né i capitoli né i titoli dei capitoli.
    Il titolo mi è venuto in mente or ora, infatti non so nemmeno se lascerò questo. Be' poiché la scrivo ogni sera, spero di finirla presto e di non lasciarla in balia del tempo. E' da un annetto che ci lavoro, ma non ho ancora le idee chiare. Buona lettura!

    Prefazione.
    Di innamorarsi sono capaci tutti, e a tutti può succedere. Amare una persona è un’altra cosa, quello l’ho dovuto imparare.
    Fabio Volo.

    Parte Prima.
    Era mattina. Una fresca mattina.
    C’era ancora l’alba quando mi svegliai. Aprii la finestra che dava sul mare. La brezza marina m’investì tutta d’un colpo.
    - è proprio una bella giornata!- dissi tra me e me.
    Mamma ancora dormiva quando scesi a fare colazione. Mi accomodai nella mia seggiola azzurra, il mio colore preferito, mi misi il Poncho e accesi il riscaldamento. Faceva molto freddo quella mattina. Rimasi lì, ferma. Contemplai la cucina e il piccolo ingresso della nostra casa.
    L’ingresso era ben visibile dalla cucina. La porta d’entrata era di un rosso sbiadito che ne indicava la longevità. La porta era in legno, un legno rovinato, corroso dal tempo e dai tarli. Credo che un tempo era stata una bella porta. Una signora porta. Il pomello d’apertura e il catenaccio per serrare la porta risplendevano lucidi di un oro quasi fastidioso. Stonavano, non c’entravano nulla con lo stile della porta. Tutto ciò la rendeva ancora meno insicura di quanto già non lo fosse da sola. Diciamo che segnalavano bene la loro posizione per eventuali malintenzionati volenterosi di entrare nella nostra casa.
    Accanto alla porta vi era un mobiletto di legno di ciliegio, non molto alto, dove spiccavano alcune pile di buste della posta. Chissà da quanto tempo non pagavamo le bollette. Sapevo che mia madre, per non avere debiti con le agenzie immobiliari “succhia - denaro”, comprò direttamente questa casa. Credo che spese tutti i suoi soldi e per questo c’era quello spropositato numero di bollette da pagare.
    Nella parete opposta al mobiletto vi era un appendiabiti in ferro battuto. Era pieno di sciarpe, cappotti, giacche leggere, interni sfoderabili di piumoni, cappellini…. Sorrisi. Era tipico di mia madre e mio ammucchiare i soprabiti sull’attaccapanni.
    Le pareti del corridoio che indicavano la strada per la cucina, erano di un colore chiaro, pastello. Ormai sbiadito, le pareti parevano bianche. Solo nei punti in cui dalla cucina giungevano dei flebili raggi solari, avevano un riflesso verde chiaro.
    La cucina si apriva alla fine del corridoio. Era grande, spaziosa e piena di luce. Le pareti erano colorate di giallo, a tratti acceso, a tratti sbiadito.
    Nella parte più occidentale, rispetto all’entrata del corridoio, vi era un grosso camino rosso. I mattoni erano in terracotta perfettamente incastonati tra di loro da uno spesso strato di calcestruzzo.
    Prima della cappa, sopra il camino, vi era una mensola sempre in terracotta. Lì vi erano deposti gli attrezzi per lavorare il carbone, per accendere il fuoco.
    Da quando abitavamo lì, non avevamo ancora avuto il piacere di utilizzare il caminetto né per una grigliata né per riscaldarsi.
    Affianco al camino si estendeva un ampio piano in marmo. Probabilmente la vicinanza del marmo con il camino era dettata da leggi chimiche che permettevano al marmo di non surriscaldarsi. Poi il marmo mi piaceva: freddo, duro e impossibile da intaccare.
    Sopra a questo ripiano di marmo vi erano le dispense con le vettovaglie e con le stoviglie.
    Mi piaceva mettere in ordine la spesa quindi mia madre mi dava campo libero quando tornava dal supermercato. Diciamo che le dispense erano il mio mondo, e mia madre non si sarebbe mai avvicinata. Lei odiava l’ordine. Ogni volta che cucinava, quelle rare volte perché non volevo sempre essere in bilico tra la vita e la morte, lasciava le pentole, i bicchieri, le posate, gli involucri delle vettovaglie, sparsi per tutta la cucina. Una volta mi ero davvero inorridita che le proibii di entrare in cucina. Diciamo che lei non aveva un buon rapporto con la stessa.
    Dopo il ripiano in marmo vi erano i fornelli. Quattro fornelli laterali e uno centrale. Non erano esageratamente grandi. Sotto i fornelli vi era il forno. Un forno normale, forse un po’ più grande di quelli soliti, ma anch’esso anonimo.
    Sopra ai fornelli vi era un’ampia vetrata che permetteva l’entrata dell’enorme quantità di luce. Infatti non vi era nemmeno un lampadario nella cucina. Era un po’ scomodo la sera ma tutto si risolveva accendendo la luce del porticato del retro della casa.
    Vicino ai fornelli vi era il termosifone ad aria calda. Andava a gas. Era quello che accendevo quasi ogni mattina nella mia vecchia casa. Infatti fui molto contenta di poter preservare qualche mia vecchia abitudine. Odiavo cambiare le mie abitudini. E mia madre lo sapeva bene. Ogni volta che avveniva una cambiamento, di qualsiasi natura fosse, per me era un trauma. Entravo nel panico. Però non con eccessività. Andavo nel panico nel senso che mi ci voleva un po’ di tempo per realizzare e fare piccole modifiche alla mia solita routine.
    Infatti non capivo come mai mia madre aveva deciso di andare via di casa, portandomi con sé. Sapeva che ci avrei messo molto tempo per abituarmi a questa nuova vita. Erano ormai passate due settimane da quando mamma e io eravamo scappate. In queste due settimane, non avevo mai avuto tempo per pensare. Pensare alle migliaia di domande a cui mia madre, prima o poi, si sarebbe sottoposta.
    Volevo assolutamente scoprire il motivo della nostra fuga. Insomma, per me lasciare gli amici, la scuola, mio padre, il mio ragazzo, senza nessuna spiegazione era stato davvero pesante. Scappare così, senza poter parlare con nessuno. Indubbiamente c’era una spiegazione valida a tutto questo. Non potevo pensare che mia madre aveva fatto ciò solo per un piccolo capriccio personale. Lei aveva sempre voluto il meglio per me. Di certo non mi avrebbe fatto cambiare città se non ce ne fosse stato davvero il bisogno. O forse non si trattava di me. Magari eravamo fuggite per una sua necessità. Magari voleva rompere con mio padre senza dirgli niente. Magari aveva subito un tradimento da lui. O semplicemente eravamo andate via solo per cambiare aria.
    Di certo in questi giorni mia madre non aveva fatto nulla per chiarirmi le idee. Non aveva accennato niente sull’argomento. Io non avevo ancora avuto modo di poterle parlare. Pensare a lei che in tutto questo tempo aveva sempre evitato l’argomento mi fece sorridere. Mi ricordai che io non ero mai stata una grande pensatrice. Però, pensare non era poi tanto male.
    Diedi una svelta occhiata all’orologio che avevo sul polso ma mi sentii toccare dolcemente una spalla.
    - Già sveglia, Catherine?- Mi interruppe mia madre.
    Era una donna alta. Molto alta. Era snella e aveva una folta chioma bionda. Era il classico modello a cui ogni donna aspirava. I suoi occhi erano grandi, verdi e sempre vispi. Questa caratteristica le permetteva di avere perennemente uno sguardo felice, allegro anche quando era imbronciata o furiosa. Infatti, spesso, quando si arrabbiava, mi scappava da ridere perché non era assolutamente credibile. Le sue labbra erano carnose, un angolo della bocca era leggermente rialzato rispetto all’altro e dava così l’aria che avesse sempre un ghigno furbetto. Si era laureata con il massimo dei voti in giornalismo. Poteva, se solo lo voleva davvero, aprire seduta stante una sua casa giornalistica. Solo che mia madre era così, non si impegnava mai veramente in qualcosa. Era sempre svogliata e molto pigra. Amava lavorare e darsi da fare per gli altri, ma quando riguardava la sua carriera professionale, non voleva impegnarsi in qualcosa di più grande di lei. Secondo me era un grossa sciocchezza. Se uno ha delle potenzialità, perché non utilizzarle e sfruttarle al massimo? Non lo comprendevo proprio. D’ altronde era lei che decideva per sé.
    Sinceramente avevo perso il conto degli innumerevoli lavori che aveva cambiato per non mettere da parte il suo orgoglio. Ebbene sì, mia madre, era una donna davvero orgogliosa, anche troppo per i miei gusti. A volte l’orgoglio va’ messo da parte, soprattutto se potrebbe compromettere il tuo futuro.
    Spesso mi capitava di chiedermi chi fosse l’adulta tra le due.
    Le sorrisi.
    Prese due tazze, il latte e i biscotti e li mise sul tavolo di vetro. Riscaldò il caffè, prese lo zucchero e infine si sedette.
    - Oggi lavoro fino a tardi, non chiamarmi.- Disse.
    - Ok mamma.- Le sorrisi.
    Lei non contraccambiò, questa mattina sembrava particolarmente seria. Solitamente la mattina era sempre solare, allegra. Anche quando tutto andava storto, lei rideva e sorrideva. Magari era triste perché le mancava papà. O magari era impegnata a escogitare un piano per pagare tutte le bollette. E pensare che volevo sottoporla al mio infinito questionario ma, con l’umore che aveva, ero sicura di non ottenere i risultati tanto ambiti.
    - Non senti caldo Cathy?- Disse lei levandosi la vestaglietta di lana. A volte mi dimenticavo che lei era estremamente calorosa. Non lo pativa proprio il caldo. Io invece lo amavo. Amavo con tutta me stessa il caldo. Per questo volevo tornare a casa. Volevo tornare nella mia piccola cittadina, Palo Alto. Volevo il mare, volevo le spiagge, volevo i surfisti. Forse ci eravamo trasferite anche per questo motivo. Magari mamma si era semplicemente stufata del caldo asfissiante. Allora papà ci avrebbe raggiunto a momenti, se era così che andavano le cose.
    Mentre riflettevo sulla miriade di possibilità che avessero spinto mia madre a fuggire da casa nostra, notai un particolare sul suo corpo. Normalmente mi soffermavo a guardare il suo corpo allibita da tanta bellezza, e spesso mi domandavo se anche io da adulta avrei avuto lo stesso fisico mozzafiato. Però questa volta non mi soffermai sulle sue braccia, sul suo collo, sul suo ventre, per guardare la sua bellezza. Infatti notai, con mio stupore, delle macchie. Come prima impressione, non realizzai cosa potevano essere. Rimasi impalata a fissare quelle macchie indefinite sul corpo di mia madre. Come se il mio cervello si fosse impallato, non riuscivo minimamente a pensare. Non riuscivo a dare una spiegazione razionale al perché di quelle chiazze sul suo corpo.
    Ripensai a tutte le volte che avevo visto macchie del genere. Rimasi scioccata quando ripensai alla volta che presi un pugno a pugilato. La mia faccia si era gonfiata e avevo riportato una chiazza violacea sulla stessa. Sì, ora il mio cervello aveva realizzato. Avevo capito di cosa si trattava. Avevo finalmente scoperto cos’erano quelle macchie sul corpo di mia madre. Erano lividi.


    Seconda parte.
    - Oh santo cielo! - urlai – cosa sono tutti quei lividi? – Chiesi riluttante all’idea di un livido sulla sua pelle diafana.
    - Niente, niente Cathy. Lascia perdere. Vatti a preparare, è tardi. - Disse lei.
    - Mamma! Come puoi dirmi di andare a scuola dopo averti visto in questo stato? – Sbottai. Non aveva il diritto di impartirmi ordini del genere solo quando voleva lei. Non poteva utilizzare questa banale scusa, non stavolta. Questa volta mi avrebbe ascoltata a scosto di arrivare in ritardo a scuola. Me lo doveva.
    - Mi hai trascinato in posto che mi fa schifo, sei sempre evasiva in questi giorni e in più, dopo averti vista in questo stato, mi ordini di lasciar perdere? No mamma, questa volta mi spieghi. Perché hai tutti quei lividi? Santo cielo, devo sempre essere io quella seria tra di noi? Dovresti essere tu a preoccuparti, e non io! Ora tu con calma mi spieghi il perché siamo partite e anche il motivo di quelle macchie indefinite sul tuo corpo. – Ero sicura che le cose erano collegate. Forse qualcuno l’aveva maltrattata. Magari mio padre le aveva consigliato di andare via di casa. Ma allora perché non raggiungerci? Per non destare sospetti? Non sapevo cosa pensare.
    - Corri a lavarti e a vestirti immediatamente Catherine!- mi urlò lei.
    - Ho il diritto di sapere! Non puoi pretendere di prendere delle scelte che riguardano anche me, senza consultarmi. Io questo non te lo permetto. Non mi importa se sei mia madre, mia nonna o mia sorella. Mi sono stancata di te da quando ci siamo trasferite qui. Cavolo, ma perché ce ne siamo andate? Non ti piaceva Palo Alto? Ti avevano picchiato? È per questo che ci siamo trasferite? Perché ti molestavano? E papà? È un tuo complice o lui non sapeva nulla? È lui che ti ha consigliato Dallas a 628 miglia da casa nostra? – Iniziai a elencarle tutte le mie domande. Fece una faccia disgustata quando parlai di mio padre. Mi fermai, attendevo una risposta.
    - Tuo padre non c’entra. Non sa nulla e non deve sapere nulla. Ora vai a scuola Cathy. Hai ragione ho sbagliato, dovevo spiegarti. Lo farò in giornata, appena avrò due minuti di tempo. Come ti ho detto oggi lavoro fino a tardi. – Parlò senza espressione. Senza tradire nessun tipo di emozione. Fredda, strana. Non era assolutamente da lei, non l’avevo mai vista così.
    Mi concessi alcuni istanti per esaminare ancora il volto di mia madre, in particolare la sua faccia.
    Non avevo notato che sul volto aveva delle occhiaie nere, profonde, talmente scure che pareva tanto trucco colato. Rimasi attonita e anche io mi svuotai da ogni tipo di sensazione ed emozione.
    - Va’ Cathy, per piacere. – Disse mia madre. Ci misi qualche istante a capire che stava parlando lei, pareva uno zombie.
    Scappai dalla cucina e salii in bagno. Ancora mi frullavano in testa le parole di mia madre, “tuo padre non c’entra”. Ora capivo perché non era ancora venuto qui. Sinceramente però, non capivo il motivo per cui lui non doveva sapere nulla di questa storia. Iniziai a lavarmi i denti. Oltretutto poteva anche stare in pensiero. Come minimo io mi sarei spaventata a morte non trovando a casa la mia famiglia. Mi sarei messa in moto, e avrei sicuramente scatenato un putiferio pur di trovarli.
    Era anche vero che mio padre, fin’ora, non aveva fatto nulla del genere. Forse mia madre stava solo provando il fatto che a lui non gli interessava per nulla di me e di lei. Forse.
    Mi sciacquai velocemente la faccia e corsi in camera mia. Diedi uno sguardo veloce all’orologio: era davvero tardi. Aprii l’armadio: presi una grossa maglietta grigia con disegnata la bandiera americana e un Jeans Levi’s tutto rovinato. Mi misi il braccialetto di Tiffany, regalo di mio padre, e, messe le scarpe, scesi in cucina.
    Speravo di trovare mia madre, ma non la vidi. Tanto, anche se l’avessi vista, cosa ne avrei tratto? Assolutamente nulla. Oltretutto aveva promesso: appena avrebbe avuto un po’ di tempo mi avrebbe spiegato. Mi fidavo di lei.
    Presi le chiavi della mia macchina, dal mobiletto di ciliegio, e mi ci diressi a grandi falcate.
    La mia macchina era una Volkswagen del 1939. Precisamente era un Maggiolino decappottabile.
    L’abitacolo era piccolo, ma non troppo, e aveva anche i posti del passeggero.
    Mi piacevano le macchine vecchie. Erano piene di vita ed erano efficienti, molto di più di certe auto di ultima generazione. Ero riuscita a dissuadere mio padre che volevo comprarmi un Suv. Riuscii a pagarmi la macchina da sola svolgendo qualche lavorino a destra e a manca. Naturalmente mio padre mi faceva pressioni psicologiche su quanto fosse improbabile trovare una macchina antica in ottime condizioni. Ma grazie al cielo riuscii a trovarne una in ottimo stato. Lui si arrese alla mia scelta anche se fino all’ultimo mi ribadì che erano soldi sprecati. Fino a quel giorno non mi ero mai lamentata della mia macchina e di certo non avevo intenzione di farlo. Secondo me si sarebbe arrabbiata. Mi piaceva pensare che tra me e la mia macchina ci fosse un feeling, come se fossimo sposati.
    Inserii la chiave nel blocchetto d’accensione e con un rombo prese vita la macchina. Il motore era di ultima generazione quindi non faceva rumori strani, tranne all’accensione. Ingranai la prima marcia e premetti l’acceleratore più forte che potei.
    Mentre percorrevo le strade che mi avrebbero condotto a scuola, guardai annoiata e pensierosa il paesaggio. Era autunno ed era tutto così disgustosamente rosso/arancio. Erano due colori che non potevo sopportare. Il rosso era, secondo me, solo il colore del sangue. Odiavo il sangue. Solo sentir parlare di vasi sanguigni o sangue in generale, mi sentivo mancare. L’arancione era il colore preferito di mia madre, ma non so perché non lo avevo mai digerito. Forse perché si accoppiava molto bene con il rosso. La via principale del quartiere in cui avevamo casa era costernata da altissimi alberi dalla corteccia bianca e dalle foglie arancio acceso. Bleah! pensai. Mi sembrava di stare in una scenetta di Winnie the Pooh. Mi venne in mente quando, l’anno scorso, decapitai il mio Winnie. Risi di me. Ero stata davvero crudele con lui. Ma ero sempre stata una ragazza difficile. Fin da piccola avevo avuto problemi con i peluche.
    Non era stata una buona mossa ricordare il mio Winnie. Finii così per ricordare la mia vecchia città. Mi mancava anche la mia vecchia casa. Il sole, il mare, la salsedine sulla pelle. Tutte sensazioni che qui non potevo avere.
    Finalmente imboccai la strada principale della città: ai lati di essa i piccoli commercianti aprivano i propri negozi. Poi vidi, come al solito, “il Capitano” (così lo chiamavano gli abitanti del posto) seduto con gli stessi vestiti e nella stessa posizione di sempre e nella solita panchina blu. Mi aveva sempre incuriosito quel signore. Era sempre da solo, non parlava mai con nessuno, e non dava la sensazione di volerlo fare.
    La sua barba incolta, grezza e bianca, non poteva non ricordarmi nessuno. Infatti mi venne subito in mente mio nonno. Il povero era morto un paio di anni fa. Probabilmente di depressione. Mia nonna lo aveva lasciato dopo quarant’anni di matrimonio. Lui non aveva avuto abbastanza forza da rifarsi una nuova vita, al contrario di mia nonna che non aveva perso occasione di fidanzarsi con un uomo molto più giovane di lei.
    Svoltai per la via della scuola anch’essa costernata da alti alberi. Affianco a me passò un ragazzo in bici, moro con gli occhi verdi. Così mi venne in mente Gabe. Il mio Gabe. Quel bellissimo ragazzo alto, moro, occhi verdi e con quella postura austera da vero principe. Un po’ come mio padre. Loro si assomigliavano molto, forse era per questo che mi sentivo molto legata a Gabe. Amavo molto mio padre. Gli avrei dato molto volentieri la vita come lo avrei fatto per mia madre e per Gabe.
    Arrivata a scuola trovai un parcheggio e corsi verso l’aula di Spagnolo. Era davvero tardi.



    Parte Terza.
    La professoressa Bennett aveva già iniziato la spiegazione e, appena arrivai, mi lanciò un’occhiataccia. La puntualità non era mai stata il mio forte. Mi sedetti in fondo all’alula nel mio banco singolo. Da quando avevo lasciato la mia città, e il mio Gabe, non avevo intenzione di instaurare nuovi rapporti sociali con nessuno di questo posto. La gente di questo posto era davvero agghiacciante. Erano tutti pettegoli. Sia maschi che femmine. Odiavo come mi guardavano. Dovevo ammettere, però, che nemmeno loro avevano mai tentato di avvicinarsi a me, neanche per fare la mia conoscenza. Non desideravo null’altro che scoprire il motivo del mio trasferimento in questa schifosa città. Non avevo in programma di rimanere qui molto, quindi mi andava bene così. Tutto sommato stavo molto bene da sola.
    Ad interrompere le mie riflessioni fu la porta dell’aula che si aprì.
    Entrò a passo lento un ragazzo biondo, occhi viola e un po’ impacciato. Sorrisi abbassando la testa.
    La Bennett interruppe la lezione e ci presentò il nostro nuovo compagno.
    ¬- Ecco ragazzi lui è Mark. Mark era uno studente di alto livello di una scuola di New York. Spero sia il benvenuto tra di voi.- Disse con tono severo ma fiero.
    - Mark, vai a sederti vicino a Catherine. Sono sicura che diventerete grandi amici.- Disse con aria sarcastica.
    Ci mancava solo questa! Ci mancava solo che quel cretino Newyorkese appena arrivato debba venire a sedersi proprio vicino a me.
    Santo cielo! La Bennett mi odiava profondamente. D’altronde chi non lo faceva in questa classe?
    Mark a passo lento e barcollante si sedette al posto vicino al mio.
    - Ciao, ehm… io sono Mark, piacere.- disse lui, un po’ imbarazzato.
    Non ci potevo credere. Più della metà dei nostri compagni di classe si voltarono verso di noi e la Bennett bloccò la lezione. Sembravano tutti in attesa della mia reazione. Tutti in attesa di uno scoop da raccontare a mezzo istituto. O semplicemente aspettavano la mia risposta. Forse volevano sentire la mia voce.
    - Io sono Cathy.- risposi, con tono abbastanza gelido. Rimasi un po’ stizzita e il mio astio e risentimento per quelle persone crebbe a dismisura. Appena finii di parlare subito si voltarono a parlare e a sghignazzare indicandomi nonostante sapessero che io li stavo guardando tutti.
    - ah… ok.- disse Mark rimanendo scioccato.
    Poverino d’altronde lui non c’entrava. Però in quel momento non avevo spazio nel corpo per provare pena per lui. Di certo non avevo intenzione di chiedergli scusa o qualche altra smanceria simile.
    Avevo bisogno di distrarmi quindi tentai di prestare attenzione alla lezione di spagnolo. La Bennett ormai diceva e ribadiva sempre le stesse cose.
    Così passarono tre lunghe ore di spagnolo accanto ad un novellino con cui non parlai mai, con dei compagni che spettegolavano a tutto spiano e con una professoressa che non andava avanti con il programma.
    Finalmente, per me, suonò la campana della mensa. Con molta calma riordinai le mie cose, tanto sapevo che non c’era nessuno che mi stava aspettando. Mentre mettevo i libri nello zaino mi accorsi che Mark non si era nemmeno spostato dalla sedia. Iniziavo a pensare che quel tizio fosse davvero strano.
    Non che fosse mia abitudine farmi gli affari degli altri, inclinai leggermente il capo per vedere cosa stava facendo. Rimasi di stucco quando lo vidi. Stava semplicemente disegnando. Mi bastarono pochi attimi per rendermi conto che cosa stava accennando. Era solo un abbozzo che probabilmente, dagli schizzi ai lati del foglio, sarebbe diventato una bella donna. A quanto pare avrebbe dovuto avere delle rose, non capivo bene dove, e un velo.
    Senza pensarci due volte parlai.
    - Mark, che bel disegno…- Dissi. La mia voce parve strana anche a me.
    Lui, prima scioccato e poi meravigliato mi fissò per qualche istante.
    - Ah…ehm..sì grazie. Scusa ma devo andare in mensa.- Disse; prese le sue cose e se ne andò. Precisamente corse via.
    Sicuramente era rimasto sbalordito dal mio cambio di umore. Nemmeno io me lo aspettavo. Chi lo avrebbe mai detto? Io no di certo. Un ragazzo anonimo e goffo mi aveva fatto avere dei rapporti sociali con qualcuno di quel posto. Fantastico! Non che parlare con uno sconosciuto, appena arrivato, fosse davvero instaurare dei rapporti sociali. Risi di me stessa. Raccolsi le mie ultime cose e andai in mensa.



    Parte Quarta.
    Varcai la soglia della mensa a passo lento e svogliato. Odiavo la mensa.
    È assolutamente retorico e ripetitivo dire che odiavo ogni singolo posto di quel luogo. D’altra parte era così.
    Fatto sta che varcai l’entrata della mensa e ovviamente metà degli studenti presenti si girarono per vedere il fenomeno da baraccone che faceva la propria comparsa. Iniziarono tutti a indicarmi però, invece di ridere, mi sembravano abbastanza allarmati. Forse avevano paura della donna solitaria. Magari avevano paura che io nascondessi, sotto la giacca a vento, un fucile per uccidere tutti. Sorrisi, non per compiacere gli altri, ma perché l’idea di sterminarli tutti mi piaceva proprio.
    Presi il vassoio e ignorai tutte quelle occhiate dubbiose e preoccupate che mi lanciavano tutti gli studenti.
    Mi misi in fila e analizzai per bene il menù giornaliero: pasta, pizza, verdure bollite, spinaci, purée di patate, hamburger, patatine fritte. Decisi di prendermi una bottiglietta d’acqua all’arancia e un piatto di spinaci. Sapevo che erano sicuramente orridi, ma tentai l’impresa. Sospirai, feci un gran respiro e alzai la testa cercando il mio tavolo. Ovviamente sapevo dov’era, era proprio l’unico all’angolo della sala.
    Ed eccolo lì, Mark, il novellino, seduto al mio tavolo.
    In quel momento il mio corpo tentava di contenere troppe emozioni. Indubbiamente quelle che avevano la meglio erano prima lo stupore, l’incredulità e poi la rabbia. Sentivo che nel mio petto si stava accumulando qualcosa di caldo e di grande. Ero conscia che sarei sbottata, ma non lo avrei fatto davanti a tutti.
    Dopo qualche istante decisi di avanzare, a passo lento e deciso mi avvicinai al tavolo.
    In quell’istante tutti gli studenti della scuola si bloccarono e si zittirono, tutti quanti si girarono verso di me. In quel preciso momento mi sembrava di stare in un film. In quei film assurdi tipici del mio paese. Ero davvero disgustata da quel comportamento. Non si potevano fare gli affari loro? O almeno farsi gli affari miei con molta più circospezione? Non avevano proprio pudore.
    Avanzai e Mark parve non accorgersi di nulla. Era a capo chino sul tavolo.
    Appena mi avvicinai di più notai che stava nuovamente disegnando. Mi parve di non notare un avanzamento del disegno che aveva iniziato nell’aula di spagnolo. Affilai lo sguardo per vedere se le mie impressioni fossero giuste.
    Qualcuno deglutì e mi accorsi che mi ero fermata davanti a Mark. Ovviamente nell’aria c’era un’atmosfera di tensione e tutti si aspettavano da me chissà quale reazione.
    Pensai brevemente e velocemente alle possibilità che avevo a disposizione. La prima che mi venne in mente fu quella di prenderlo a schiaffi e di urlargli di andarsene. Questa probabilmente era la reazione più banale e scontata e che tutti si aspettavano. La seconda possibilità era di sedermi al tavolo e di mangiare in pace. D’altronde non c’erano tavoli liberi e lui era un novellino. Poi mi sembrava buono, con quegli occhi viola, e non si meritava una simile umiliazione.
    Optai per la seconda possibilità.
    Il mio corpo riprese vita inaspettatamente e tutti sobbalzarono.
    Ripresi a muovermi e mi sedei proprio di fronte a Mark.
    Come avevo calcolato nessuno si aspettava questa reazione e, dopo qualche istante, si girarono tutti e si levò in aria il solito baccano che regnava in mensa.
    Approfittai di quel momento per parlare con Mark.
    - Lo sai che questo è il mio tavolo?- Chiesi acida. Ormai la mia bella figura l0’avevo fatta, ora potevo lasciarmi trasportare dalle emozioni.
    - No, sono arrivato oggi.- Rispose lui a tono.
    Rimasi sorpresa. Nessuno mi aveva mai risposto a tono. O almeno era da tanto che nessuno lo faceva. Mi rallegrava un po’ il fatto che ancora c’era qualcuno di normale in questo posto.
    - Giusto, giusto, hai ragione.- Dissi io conciliante.
    Iniziai a mangiare. Gli spinaci erano incredibilmente stoppacciosi. Non avevo proprio il coraggio di mangiarli. Iniziai a punzecchiarli con la forchetta. Poi presi con decisione il coltello e iniziai a tagliare con troppa foga quella poltiglia verde.
    - Non avrai intenzione di mangiarli, spero. Non che siano affari miei, ma non vorrei un morto sulla coscienza. – Disse e sorrise.
    Lo guardai. Aveva un sorriso bellissimo, era difficile trovarne di così belli. Aveva denti davvero perfetti. Il suo volto era magro e aveva un mento spigoloso ma grazioso allo stesso tempo. Era davvero bello. Era la perfezione a cui l’uomo aspirava.
    Mi ricordava le descrizioni degli atleti greci. Gli scultori ricercavano la bellezza ideale in quei bellissimi atleti. Così belli, di una bellezza quasi fastidiosa. Lui era così. L’incarnazione della bellezza idea. La bellezza aulica che avevano i greci.
    Poi quegli occhi viola, erano davvero particolari. Non li avevo mai visti. L’iride era molto chiara vicino alla pupilla. Sembravano quasi bianchi. Poi si apriva un bel viola intenso, quasi cristallino.
    - Cosa fai Cathy, fissi?- Chiese lui un po’ stizzito ma lusingato.
    Rimasi imbambolata. Lo fissai ancora più intensamente. Non avevo notato che a sua volta scrutava il mio volto. Sentì le mie guance avvampare. Abbassai lo sguardo e mi concentrai nuovamente sugli spinaci.
    Mi sentivo proprio una stupida. Mi sembrava di essere ritornata piccola. Quando avevo preso la mia prima cotta. Che cosa imbarazzante!
    Spostai gli spinaci e mi sporsi verso di lui.
    - Che cosa disegni?- Chiesi con disinvoltura. Cercavo il più possibile di fare la vaga. Non volevo sembrare una stupida.
    - Disegno l’anima di una ragazza.- Disse lui senza farci caso.
    - L’anima?- Chiesi stupita. Sapevo che non poteva essere così perfetto. Era bellissimo, parlava benissimo, aveva una dentatura perfetta, aveva quegli occhi stupendi, quel viso da far invidia a chiunque, ma era malato di cervello. È impossibile disegnare l’anima di qualcuno! Accidenti! Speravo che fosse normale, invece.
    - Sì, cioè ciò che l’anima della ragazza in questione mi trasmette.- Sorrise di nuovo, agitando in aria la matita mentre spiegava. Rimasi stupefatta della sua risposta. Continuavo a pensare che non avesse tutti i sentimenti al posto giusto.
    Intanto io lo guardavo disegnare e sorridere, ogni volta che alzava la testa.
    Rimuginai sulle sue parole: “ciò che mi trasmette l’anima della ragazza…” ma che strano.
    No, lui era proprio strano. Certo che la gente di questo posto era davvero bizzarra!
    Ad un tratto suonò la campanella. Mi parve passata in un attimo la pausa pranzo. Poi ricordai che oggi avevo trigonometria. Normale che fosse passata in un attimo. Quando avevo materie orrende il tempo pareva volare.
    Mark subito prese le sue scartoffie e si alzò.
    - Ciao Cathy. Piacere di averti conosciuta. Sai, se ti fossi subito comportata così, non avrei pensato che fossi un’acida depressa in menopausa a soli diciassette anni. Ci si vede. – Disse e se ne andò. Rimasi perplessa. Davo davvero questa impressione? Con questo dubbio in testa che mi tormentava, mi alzai e diedi una veloce occhiata all’orologio della mensa. Ero davvero in ritardo, di nuovo. Accidenti! Il professor Murry avrà sicuramente già perso la ragione. Presi la mia borsa e corsi verso l’aula di trigonometria.



    Parte Quinta
    Imboccai il corridoio correndo, per andare in aula.
    Sinceramente, non stavo guardando dove mettevo i piedi e soprattutto chi mi stesse davanti. Così andai a sbattere, o meglio a travolgere, un ragazzo. Ovviamente io caddi per terra, lui anche e insieme a noi tutti i libri. Non godendo di un’ottima reputazione e continuando ad odiare quella scuola, e i suoi studenti, il ragazzo si alzò imprecando e se ne andò senza nemmeno aiutarmi.
    Bastardo! Almeno mi poteva aiutare a raccogliere i libri! Anche se io gli ero andata addosso. Ovviamente persi altri minuti.
    Adesso ero davvero nei guai. Arrivata davanti alla porta, quasi esitavo ad entrare. Non volevo che il professore mi sgridasse davanti a tutti. Sopportavo già a malapena tutto quel clima di odio e risentimento. Non ci si poteva mettere anche lui.
    Alla fine entrai.
    Ovvie e scontate tutte le occhiate che mi lanciarono i miei compagni. Iniziò così la routine: sorrisetti, parole dette alle orecchie, risate sommesse. Tutti gesti e azioni a cui mi ero abituata.
    Il professor Murry mi fulminò con lo sguardo e subito dopo mi ignorò completamente. Continuò a spiegare, come se io non fossi mai entrata.
    Meglio così, mi ero risparmiata umilianti viaggi verso la presidenza, perché sapevo di non riuscire a starmi zitta se lui mi avesse detto qualcosa.
    Mi andai, con molta calma, a sedere al mio banco.
    Era in fondo all’aula e era singolo. Di certo non lo avrei condiviso con nessuno di loro.
    Iniziai a disegnare piccoli quadratini sul mio libro. Non mi ricordavo nemmeno il motivo per cui mi ero iscritta a questo corso. Non capivo nulla e sinceramente non facevo nulla per riuscire a capire.
    Mentre facevo disegni assurdi mi ritrovai a disegnare rose. Tante rose.
    Mi fermai. Guardai e analizzai scrupolosamente il mio disegno. Avevo disegnato delle rose di cui i lunghi gambi si intrecciavano in una strana sinfonia.
    Con la punta del dito iniziai a percorrere il corso dei lunghi gambi. Presto mi accorsi di aver intrecciato i gambi in modo tale che potessero formare una M.
    Lì per lì, non ci feci caso. Era davvero strano tutto ciò. Non conoscevo nessuno che riconduceva ad una M.
    Inizia a riflettere più intensamente. Davvero non riuscivo proprio a ricordare chi avesse a che fare con una M e che mi fosse rimasto così tanto impresso.
    A fermare le mie riflessioni fu la porta che si aprì violentemente.
    In classe piombò il silenzio. Una signora bassa, con i capelli brizzolati lunghi fino alle spalle e con una corporatura robusta, si era bloccata sull’uscio con il fiatone.
    Nell’aria si respirava un clima di tensione e ansia. Come se tutti aspettassero che quella signora dicesse qualcosa.
    Io non mi aspettavo nulla. Tra l’altro non avevo proprio idea di chi ella fosse. Ne intendevo curarmene.
    Dopo svariati istanti, la signora fece uno, due, tre, quattro passi verso il professor Murry. Lui la fissava impaziente. Ma la donna non fiatò.
    Ad un tratto il signor Murry, fece un gran respiro, e disse:
    - Allora, signora Shalmann, cosa deve dirci?-.
    Mi sembrava di stare in un film, per l’ennesima volta. In questo posto tutto era surreale.
    Le azioni, i gesti, le mosse, era tutto amplificato a mille. Il che mi dava ancora di più sui nervi. A volte riuscivo a sentire cosa provavano quei meschini dei miei compagni di corso, a volte odio, paura, felicità, stizza, menefreghismo, tutte emozioni non mie. Be’ magari l’odio sì. Per quel posto sì.
    Finalmente la signora Shalmann iniziò a parlare.
    - E’ qui la signorina Bills?-.
    Alzai la testa dal banco. Me?. Cercava me?. E che cosa accidenti voleva quella signora? Nemmeno l’avevo mai vista!
    Mi alzai e feci per rispondere quando il professor Murry mi anticipò.
    - Sì, è qui la signorina Bills. Cosa le serve? Deve venire in segreteria?-.
    D’un tratto la signora scoppiò a piangere. In un modo disperato. Non avevo mai visto nessuno disperarsi a quel modo. Mai. Non pensavo si potesse provare così tanto dolore per qualcosa.
    Ma, allora, perché chiamarmi? Che c’entravo io con il suo pianto? Non la conoscevo neanche. Non sapevo chi fosse fino a dieci minuti fa.
    Perché chiamarmi e poi scoppiare in lacrime?
    Feci per parlare ma, ancora una volta il professore fece prima di me.
    - Si sente bene? Come mai piange?-. Era alquanto turbato anche lui. Probabilmente i miei stessi dubbi gli giravano in testa. Perché chiedere di me e poi piangere disperatamente?
    La signora Shalmann tirò su col naso un paio di volte prima di parlare.
    - Bills, tua madre… oh santo cielo, tua madre è in ospedale. È in gravi condizioni, mi dispiace-.


    Ecco a voi le mie 5 "piccole" (eufemismo!) parti! :D
     
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  2. Yuube
     
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    Oddio quanto è lunga xD me ne occupo io appena possibile ^^
     
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  3. •Queen.Of.Rock«
     
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    Ok Yuube, non c'è fretta :D
    Se magari Ely ci vuole dare un'occhiata è uguale :D
     
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  4. … E l y …
     
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    CITAZIONE
    Prefazione.
    Di innamorarsi sono capaci tutti, e a tutti può succedere. Amare una persona è un’altra cosa, quello l’ho dovuto imparare.
    Fabio Volo.
    Quanto mi piace questa frase... E Fabio Volo ♥

    Parte Prima.
    Era mattina. Una fresca mattina. Frase senza verbo, ti consiglio di scrivere solo "Era una fresca mattina."
    C’era ancora l’alba quando mi svegliai. Aprii la finestra che dava sul maree la brezza marina m’investì tutta d’un colpo.
    - è proprio una bella giornata!- dissi tra me e me.
    Mamma ancora dormiva quando scesi a fare colazione. Mi accomodai nella mia seggiola azzurra, il mio colore preferito, mi misi il Poncho e accesi il riscaldamento. Faceva molto freddo [quella mattina. Io la riformulere così "Accesi il riscaldamento e mi accomodai nella mia seggiola azzurra, il mio colore preferito. Mi misi il Poncho e rimasi lì, ferma, contemplando la cucina e il piccolo ingresso della nostra casa.
    L’ingresso era ben visibile dalla cucina. La porta d’entrata era di un rosso sbiadito che ne indicava la longevità. La porta era in legno, un legno rovinato, corroso dal tempo e dai tarli. Credo che un tempo era stata una bella porta. Una signora porta. Il pomello d’apertura e il catenaccio per serrarla risplendevano lucidi di un oro quasi fastidioso. Stonavano, non c’entravano nulla con lo stile della porta. Tutto ciò la rendeva ancora meno insicura di quanto già non lo fosse da sola. Diciamo che segnalavano bene la loro posizione per eventuali malintenzionati volenterosi di entrare nella nostra casa.
    Accanto alla porta vi era un mobiletto di legno di ciliegio, non molto alto, dove spiccavano alcune pile di buste della posta. Chissà da quanto tempo non pagavamo le bollette. Sapevo che mia madre, per non avere debiti con le agenzie immobiliari “succhia-denaro”, comprò direttamente questa casa. Credo che spese tutti i suoi soldi e per questo c’era quello spropositato numero di bollette da pagare.
    Nella parete opposta al mobiletto vi era un appendiabiti in ferro battuto. Era pieno di sciarpe, cappotti, giacche leggere, interni sfoderabili di piumoni, cappellini…. Sorrisi. Era tipico di mia madre e mio ammucchiare i soprabiti sull’attaccapanni.
    Le pareti del corridoio che indicavano la strada per la cucina, erano di un colore chiaro, pastello. Ormai sbiaditoe le pareti, parevano bianche. Solo nei punti in cui dalla cucina giungevano dei flebili raggi solari, avevano un riflesso verde chiaro.
    La cucina si apriva alla fine del corridoio. Era grande, spaziosa e piena di luce. Le pareti erano colorate di giallo, a tratti acceso, a tratti sbiadito.
    Nella parte più occidentale, rispetto all’entrata del corridoio, vi era un grosso camino rosso. I mattoni erano in terracotta perfettamente incastonati tra di loro da uno spesso strato di calcestruzzo.
    Prima della cappa, sopra il camino, vi era una mensola sempre in terracotta. Lì vi erano deposti gli attrezzi per lavorare il carbone, per accendere il fuoco.
    Da quando abitavamo lì, non avevamo ancora avuto il piacere di utilizzare il caminetto né per una grigliata né per riscaldarsi.
    Affianco al camino si estendeva un ampio piano in marmo. Probabilmente la vicinanza del marmo con il camino era dettata da leggi chimiche che permettevano al marmo di non surriscaldarsi. Poi il marmo mi piaceva: freddo, duro e impossibile da intaccare.
    Sopra a questo ripiano di marmo vi erano le dispense con le vettovaglie e con le stoviglie.
    Mi piaceva mettere in ordine la spesa quindi mia madre mi dava campo libero quando tornava dal supermercato. Diciamo che le dispense erano il mio mondo, e mia madre non si sarebbe mai avvicinata. Lei odiava l’ordine. Ogni volta che cucinava, quelle rare volte perché non volevo sempre essere in bilico tra la vita e la morte, lasciava le pentole, i bicchieri, le posate, gli involucri delle vettovaglie, sparsi per tutta la cucina. Una volta mi ero davvero talmente inorridita che le proibii di entrare in cucina. Diciamo che lei non aveva un buon rapporto con la stessa.
    Dopo il ripiano in marmo vi erano i fornelli. Quattro fornelli laterali e uno centrale. Non erano esageratamente grandi. Sotto i fornelli vi era il forno. Un forno normale, forse un po’ più grande di quelli soliti, ma anch’esso anonimo.
    Sopra ai fornelli vi era un’ampia vetrata che permetteva l’entrata dell’enorme quantità di luce. Infatti non vi era nemmeno un lampadario nella cucina. Era un po’ scomodo la sera ma tutto si risolveva accendendo la luce del porticato del retro della casa.
    Vicino ai fornelli vi era il termosifone ad aria calda. Andava a gas. Era quello che accendevo quasi ogni mattina nella mia vecchia casa. Infatti fui molto contenta di poter preservare qualche mia vecchia abitudine. Odiavo cambiare le mie abitudini. E mia madre lo sapeva bene. Ogni volta che avveniva una cambiamento, di qualsiasi natura fosse, per me era un trauma. Entravo nel panico. Però non con eccessività. Andavo nel panico nel senso che mi ci voleva un po’ di tempo per realizzare e fare piccole modifiche alla mia solita routine.
    Infatti non capivo come mai mia madre aveva deciso di andare via di casa, portandomi con sé. Sapeva che ci avrei messo molto tempo per abituarmi a questa nuova vita. Erano ormai passate due settimane da quando mamma e io eravamo scappate. In queste due settimane, non avevo mai avuto tempo per pensare. Pensare alle migliaia di domande a cui mia madre, prima o poi, si sarebbe sottoposta.
    Volevo assolutamente scoprire il motivo della nostra fuga. Insomma, per me lasciare gli amici, la scuola, mio padre, il mio ragazzo, senza nessuna spiegazione era stato davvero pesante. Scappare così, senza poter parlare con nessuno. Indubbiamente c’era una spiegazione valida a tutto questo. Non potevo pensare che mia madre aveva fatto ciò solo per un piccolo capriccio personale. Lei aveva sempre voluto il meglio per me. Di certo non mi avrebbe fatto cambiare città se non ce ne fosse stato davvero il bisogno. O forse non si trattava di me. Magari eravamo fuggite per una sua necessità. Magari voleva rompere con mio padre senza dirgli niente. Magari aveva subito un tradimento da lui. O semplicemente eravamo andate via solo per cambiare aria.
    Di certo in questi giorni mia madre non aveva fatto nulla per chiarirmi le idee. Non aveva accennato niente sull’argomento. Io non avevo ancora avuto modo di poterle parlare. Pensare a lei che in tutto questo tempo aveva sempre evitato l’argomento mi fece sorridere. Mi ricordai che io non ero mai stata una grande pensatrice. Però, pensare non era poi tanto male.
    Diedi una svelta occhiata all’orologio che avevo sul polso ma mi sentii toccare dolcemente una spalla.
    - Già sveglia, Catherine?- Mi interruppe mia madre.
    Era una donna alta. Molto alta. Era snella e aveva una folta chioma bionda. Era il classico modello a cui ogni donna aspirava. I suoi occhi erano grandi, verdi e sempre vispi. Questa caratteristica le permetteva di avere perennemente uno sguardo felice, allegro anche quando era imbronciata o furiosa. Infatti, spesso, quando si arrabbiava, mi scappava da ridere perché non era assolutamente credibile. Le sue labbra erano carnose, un angolo della bocca era leggermente rialzato rispetto all’altro e dava così l’aria che avesse sempre un ghigno furbetto. Si era laureata con il massimo dei voti in giornalismo. Poteva, se solo lo voleva davvero, aprire seduta stante una sua casa giornalistica. Solo che mia madre era così, non si impegnava mai veramente in qualcosa. Era sempre svogliata e molto pigra. Amava lavorare e darsi da fare per gli altri, ma quando riguardava la sua carriera professionale, non voleva impegnarsi in qualcosa di più grande di lei. Secondo me era un grossa sciocchezza. Se uno ha delle potenzialità, perché non utilizzarle e sfruttarle al massimo? Non lo comprendevo proprio. D’ altronde era lei che decideva per sé.
    Sinceramente avevo perso il conto degli innumerevoli lavori che aveva cambiato per non mettere da parte il suo orgoglio. Ebbene sì, mia madre, era una donna davvero orgogliosa, anche troppo per i miei gusti. A volte l’orgoglio va’ messo da parte, soprattutto se potrebbe compromettere il tuo futuro.
    Spesso mi capitava di chiedermi chi fosse l’adulta tra le due.
    Le sorrisi.
    Prese due tazze, il latte e i biscotti e li mise sul tavolo di vetro. Riscaldò il caffè, prese lo zucchero e infine si sedette.
    - Oggi lavoro fino a tardi, non chiamarmi.- Disse.
    - Ok mamma.- Le sorrisi.
    Lei non contraccambiò, questa mattina sembrava particolarmente seria. Solitamente la mattina era sempre solare, allegra. Anche quando tutto andava storto, lei rideva e sorrideva. Magari era triste perché le mancava papà. O magari era impegnata a escogitare un piano per pagare tutte le bollette. E pensare che volevo sottoporla al mio infinito questionario ma, con l’umore che aveva, ero sicura di non ottenere i risultati tanto ambiti.
    - Non senti caldo Cathy?- Disse lei levandosi la vestaglietta di lana. A volte mi dimenticavo che lei era estremamente calorosa. Non lo pativa proprio il caldo. Io invece lo amavo. Amavo con tutta me stessa il caldo. Per questo volevo tornare a casa. Volevo tornare nella mia piccola cittadina, Palo Alto. Volevo il mare, volevo le spiagge, volevo i surfisti. Forse ci eravamo trasferite anche per questo motivo. Magari mamma si era semplicemente stufata del caldo asfissiante. Allora papà ci avrebbe raggiunto a momenti, se era così che andavano le cose.
    Mentre riflettevo sulla miriade di possibilità che avessero spinto mia madre a fuggire da casa nostra, notai un particolare sul suo corpo. Normalmente mi soffermavo a guardare il suo corpo allibita da tanta bellezza, e spesso mi domandavo se anche io da adulta avrei avuto lo stesso fisico mozzafiato. Però questa volta non mi soffermai sulle sue braccia, sul suo collo, sul suo ventre, per guardare la sua bellezza. Infatti notai, con mio stupore, delle macchie. Come prima impressione, non realizzai cosa potevano essere. Rimasi impalata a fissare quelle macchie indefinite sul corpo di mia madre. Come se il mio cervello si fosse impallato, non riuscivo minimamente a pensare. Non riuscivo a dare una spiegazione razionale al perché di quelle chiazze sul suo corpo.
    Ripensai a tutte le volte che avevo visto macchie del genere. Rimasi scioccata quando ripensai alla volta che presi un pugno a pugilato. La mia faccia si era gonfiata e avevo riportato una chiazza violacea sulla stessa. Sì, ora il mio cervello aveva realizzato. Avevo capito di cosa si trattava. Avevo finalmente scoperto cos’erano quelle macchie sul corpo di mia madre. Erano lividi.
    [/color]

    Le risposte in rosso!

    Alloraa! Ecco la valutazione:
    Grammatica: 9
    Personaggi: 9
    Punteggiatura: 7
    Valutazione totale: 8 e mezzo
    Commento recensitrice: La storia mi incuriosisce, le descrizioni sono ricche ed è possibile immaginare la stanza. L'unica cosa che non mi è chiara è: Catherine non pensa al suo ragazzo? Alle sue amiche? Solo alla sua famiglia?
    Per il resto mi piace tanto, cercherò di recensire al più presto il resto!
     
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  5. •Queen.Of.Rock«
     
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    CITAZIONE
    Le pareti del corridoio che indicavano la strada per la cucina, erano di un colore chiaro, pastello.

    Credo che tu ti sia sbagliata qui... non credo che grammaticalmente parlando ci si possa mettere la virgola in questo punto.
    Per quanto riguarda la prima frase è voluto il non verbo della seconda frase.
    In definitiva, spero che possa vedere recensito il resto prima possibile :D
    Grazie mille ely! :D
     
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  6. … E l y …
     
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    In realtà quello che volevo segnarti non era la virgola, ma la ripetizione qui
    CITAZIONE
    Le pareti del corridoio che indicavano la strada per la cucina, erano di un colore chiaro, pastello. Ormai sbiadito e le pareti, parevano bianche.

    Comunque per la frase senza verbo secondo me ci sta, anche se la mia professoressa me li segna sempre xD
     
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  7. •Queen.Of.Rock«
     
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    Ahhh okkei... Comunque grazie, la ripetizione pareti è ok, ma la virgola tra cucina e erano è sbagliata :D
    Tutto qui, comunque grazie infinitamente, non vedo l'ora ch emi correggi il resto :D
     
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  8. … E l y …
     
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    Sì hai ragione, solo che non sapevo come sistemarla ^_^
     
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7 replies since 28/8/2010, 22:37   80 views
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